Omicidi

  • 07 giugno 2019
Omicidi

La settimana scorsa un ex ingegnere comunale della città americana di Virginia Beach — descritto dalla polizia come “disgruntled”, “scontento” — è tornato nell’ufficio dove aveva lavorato con una pistola calibro .45 e ha ucciso 11 ex colleghi, ferendone altri 6.

Il “mass shooting” — la definizione comprende l’uccisione o ferimento di quattro o più persone insieme — era il 150esimo dell’anno negli Usa ed era al di sopra della media. L’ultimo episodio paragonabile si è avuto a novembre, a Los Angeles, con 12 vittime, quando un ex marine, presumibilmente “disgruntled” anche lui, è entrato in un locale country & western e ha aperto fuoco sugli avventori.

Eppure, il tasso generale di omicidi negli Usa è — secondo dati Onu — significativamente al di sotto della media mondiale, 5,35 vittime per centomila di popolazione rispetto al dato globale, 6,2 per centomila. Nella classifica UNODOC — United Nations Office on Drugs and Crime — gli Stati Uniti sono solo al 90° posto nel mondo. Sono ampiamente superati da altri paesi più o meno civilizzati come la Russia (10,82 per centomila), Messico (19,26), Brasile (29,53), Jamaica (47,01) e il sanguinoso trio sudamericano, Venezuela, Honduras e El Salvador (rispettivamente: 56,33, 56,52 e 82,84).

I dati sono del 2016 ed è ipotizzabile che il Venezuela abbia intanto guadagnato qualche posizione. L’Italia invece “si uccide” ad un tasso bassissimo: 0,67 persone per centomila; la Francia il doppio, 1,35 per centomila, la Germania 1,18, e gli inglesi, 1,20 per centomila. L’Europa, storicamente, ha sempre preferito dissanguarsi periodicamente in guerre continentali che spazzavano via intere generazioni di giovani.

Ad ogni modo, se gli americani sembrano favorire — in termini relativi — ammazzarsi in gruppi anziché alla spicciolata, come si spiega il fenomeno?

Non è solo per la disponibilità di armi. Degli 89 paesi più “omicidiosi” degli Stati Uniti molti limitano, almeno in via teorica, il possesso di armi da fuoco, eppure non sembrano attratti dai piccoli “stermini di massa” che caratterizzano “the American way of violence”. Il fenomeno parrebbe quasi rispecchiare l’attenzione americana al commercio su larga scala, la grande distribuzione organizzata rispetto al piccolo negozio di quartiere: come per dire, se dobbiamo prepararci per ammazzare uno, tanto vale uccidere anche degli altri…

Strano a dirsi, l’idea potrebbe trovare una sorta di conferma — almeno per quanto riguarda il meccanismo mentale — nella straordinaria prevalenza di ingegneri tra i terroristi islamici. Nel 2016, in un libro della Princeton University Press, “Engineers of Jihad”, due ricercatori, il sociologo Diego Gambetta e lo scienziato politico Steffen Hertog, hanno ipotizzato che una “particolare forma mentis che cerca ordine e gerarchia e che si trova più di frequente tra gli ingegneri” potrebbe spiegare il sorprendente dato di base che avevano trovato esaminando la scolarizzazione di militanti islamici violenti di trenta paesi: “Di quelli i cui studi sono andati oltre al liceo, il 44 percento avevano studiato ingegneria”.

L’ipotesi è controversa — specialmente tra gli ingegneri — ma se avesse un minimo di fondamento, potrebbe forse offrire una possibile spiegazione del comportamento degli assassini di massa americani.
Dipenderebbe dalla spinta verso l’efficientismo, una nota caratteristica culturale Usa: già che ci siamo, mettiamo un po’ d’ordine...

Su di me

James Hansen

James Hansen is a former diplomat and journalist. After serving in the American Foreign Service in various capacities, he was posted to the U.S. Consulate General in Naples as Vice-Consul. Remaining in Italy as a correspondent for, among others, the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, he later became spokesman for some of the country's best known business figures, including Carlo De Benedetti and Silvio Berlusconi. More recently he acted as Chief of Press of Telecom Italia. Today he is President of a Milan-based consulting firm, Hansen Worldwide, which advises leading Italian industrial groups on their international relations. He has edited the geopolitical review EAST and today directs the widely-read Nota Diplomatica, which appears weekly.