Nella guerra dei dazi tra Cina e USA per ora vince Babbo Natale

  • 27 agosto 2019
Nella guerra dei dazi tra Cina e USA per ora vince Babbo Natale

Mario Sommossa DA: sputnik

Nella guerra commerciale contro la Cina Trump sta trovando difficoltà che probabilmente aveva sottovalutato. Dopo aver annunciato una nuova tranche di dazi che avrebbe dovuto applicarsi su circa 300 miliardi di merci cinesi a partire dal 1 settembre, si è reso conto che i consumatori americani avrebbero potuto non gradire.

In effetti, tra le merci previste c’erano una marea di prodotti che facevano parte dei possibili acquisti degli americani in occasione delle feste di fine anno e trovarseli aumentati nel prezzo di acquisto non sarebbe stato piacevole per quegli elettori cui Trump dovrà appellarsi nelle elezioni presidenziali del prossimo 2020.

Da qui l’annuncio che, dei 300 miliardi, una parte avrebbe subito l’aumento dei dazi del 10% soltanto a partire dal 15 dicembre. Giusto in tempo per consentire agli importatori grossisti di poterli acquistare alle condizioni precedenti. Si tratta di prodotti voluttuari di produzione cinese che il consumatore americano si è abituato a comprare a prezzi vantaggiosi: telefonini, computer laptop, videogame, giocattoli, monitors e alcuni tipi di vestiti e di calzature.

La Cina, comunque, non ha dimostrato alcun apprezzamento per lo spostamento della data e ha invece confermato che risponderà come di dovere alla minaccia di nuove tariffe doganali. È evidente trattarsi di una partita di poker ove entrambi continuano ad alzare la posta nella speranza che l’altro ceda e accetti le condizioni imposte dal trionfatore. In questo gioco, per ora senza vincitori, una delle mosse americane è stata quella di accusare Pechino di essere un “currency manipulator” e cioè di pilotare volutamente al ribasso la propria moneta, lo Yuan, per far diventare più competitive le proprie merci e assorbire così anche l’aumento dei dazi all’importazione. Che il valore dello Yuan sia sceso sotto i 7 yuan per dollaro, cosa che non si vedeva dal 2008, è una realtà.

Anche il fatto che la Cina abbia spesso usato il valore di parità di scambio monetario al fine di essere più competitiva sui mercati internazionali è altrettanto provato dalle vicende passate. All’inizio degli anni 2000 Pechino aveva comprato ben 4.000 miliardi di dollari in bond americani per far scendere il valore rispettivo della propria valuta e il risultato fu che la parità col dollaro si raggiungeva a ben 8,2. Tuttavia, nel 2014 la Cina cambiò strategia perché cominciò a voler spingere i consumi interni anziché puntare tutto sulle esportazioni. Rendere lo Yuan più forte divenne allora una necessità per consentire un maggiore potere d’acquisto ai consumatori e, per ottenerlo, cominciò a usare le proprie riserve in valuta straniera fino a venderne ben 1.000 miliardi.

C’erano anche altri motivi che spinsero a quella decisione: la necessità di ridurre la fuga di capitali che era già iniziata, gli accordi con alcuni Paesi di pagare i reciproci scambi attraverso l’uso delle rispettive valute e non in dollari, il desiderio di cominciare a far entrare lo Yuan nel sistema dei pagamenti internazionali avvicinando quella valuta agli standard del libero mercato.

La Banca Centrale Cinese decise, quindi, di consentire un’oscillazione della valuta entro, dapprima, il 2% nei due sensi e, più tardi, entro il 4%. Ciò consentì una rivalutazione dello Yuan che arrivò ad aumentare di valore rispetto al dollaro di addirittura il 9%. La tendenza sarebbe continuata se l’annuncio della guerra dei dazi lanciata da Washington non avesse cambiato le carte in tavola. Cominciata la guerra commerciale, i capitali stranieri iniziarono a venir meno, le industrie cinesi a ridurre la produzione, la disoccupazione a manifestarsi con la perdita di almeno 2 milioni di posti di lavoro (dati della China International Capital Corp. – CICC), il debito interno, in gran parte non solvibile, ad aumentare. Era naturale, in queste condizioni, che le quotazioni dello Yuan calassero.

Non si tratta dunque di una manovra decisa dal Governo di Pechino, ma di una naturale conseguenza delle difficoltà economiche e finanziarie che l’economia del “dragone” sta soffrendo oramai da un po'.

Il colmo è che, davanti a un tale calo fisiologico, la vera accusa che si potrebbe rivolgere a Pechino non è di interferire artificiosamente sui cambi “manipolando la valuta”, ma di NON FARLO. Ciò che Trump vorrebbe è uno Yuan più forte per rendere le merci cinesi meno competitive e farle soffrire maggiormente per i dazi applicati. Per ottenere ciò, però, occorrerebbe davvero che La Banca Centrale Cinese intervenisse per invertire la tendenza.

In altre parole, se detto correttamente, Washington rimprovera alla Cina di NON manipolare i cambi. Purtroppo per gli USA, farlo in queste condizioni dell’economia già sofferente per una crescita molto inferiore a quanto desiderato, obbligherebbe Pechino a vendere ancora una sempre maggiore quantità di riserve in valuta straniera, cosa che almeno per ora i cinesi non si sentono di fare ammontando il totale di quanto già speso recentemente a questo scopo a ben 3.100 miliardi di dollari. Il loro timore è di innescare una caduta incontrollabile del valore della propria moneta (come successo alla Turchia) e mettere fuori mercato tutte quelle aziende che sono indebitate in valuta straniera (in particolare le joint venture). Considerato poi che la maggior quota di riserve è detenuta in bond americani, non è nemmeno detto che la loro messa sul mercato in gran quantità possa giovare al bilancio federale USA.

Ciò che gli americani potrebbero fare, se veramente temono una troppo penalizzante (per loro) svalutazione dello Yuan, è di comprare essi stessi la valuta cinese in grandi quantità, costringendo così il suo valore a risalire. Il paradosso allora sarebbe che la Cina si troverebbe a poter combattere le proprie difficoltà economiche proprio grazie all’aiuto di denaro americano fresco in arrivo da oltre oceano. Che smacco sarebbe per Trump!


Autore: Redazione BeGlobal